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La concezione del tempo in Eugène Minkowski

SILVIA VISSANI

 

Vita e opere

Minkowski nasce nel 1885 a San Pietroburgo da una famiglia ebrea di origine polacca e muore nel 1972 a Parigi (a 87 anni).

Dopo aver effettuato gli studi secondari, si iscrive alla facoltà di medicina (studia medicina) di Varsavia dove rimane fino al 1905. A causa infatti delle vicende politiche di quel tempo e per aver partecipato ad una rivolta degli studenti (viene segnalato negli schedari della polizia zarista e per questo il suo diploma di laurea non avrebbe avuto più valore…) si trasferisce a Monaco di Baviera dove si laurea nel 1908. Nell’anno successivo supera l’esame di abilitazione all’esercizio della professione medica.

Tuttavia la medicina, in quanto scienza naturale, per Minkowski non era in grado di comprendere l’essenza umana in tutte le sue sfumature. Egli è interessato al fenomeno “essere umano” e per questo si avvicina alla filosofia, in particolare al pensiero di Bergson (fa riferimento in particolare a “Saggio sui dati immediati della coscienza”) che ha segnato la sua ricerca e ha rappresentato una continua fonte di ispirazione. Parallelamente inizia ad interessarsi di psicopatologia.

Nel 1913 si sposa con Françoise Minkowska, anche lei impegnata nel campo della psicopatologia e con la quale collabora (fino alla morte di lei nel 1950) nella ricerca psichiatrica. Allo scoppio della prima guerra mondiale Minkowski insieme alla moglie si rifugia in Svizzera a Zurigo, dove inizia a lavorare come assistente presso la clinica psichiatrica di Eugen Bleuler[1] fino al marzo del 1915, quando decide di arruolarsi come medico volontario nell’esercito francese.

Nonostante la guerra, egli continua a dedicarsi alla filosofia, in particolare alle opere di Bergson e di Husserl e compie degli studi sul tempo-qualità, sullo slancio vitale, sulla memoria, sull’oblio e sulla fenomenologia della morte che rimarranno però allo stadio di abbozzo ma che, successivamente, costituiranno la base da cui si svilupperà l’intera sua opera. Nello stesso periodo coltiva l’interesse anche per la medicina, dalla quale si era allontanato per dedicarsi alla filosofia, e, in particolare, alla psichiatria.

Egli si convince che “tutta una serie di manifestazioni psicopatiche”[2] possono essere lette sotto il profilo del fenomeno tempo e che il campo della psichiatria, a sua volta, permette di ampliare gli studi sul tempo vissuto.

Al termine del primo conflitto mondiale decide di stabilirsi definitivamente a Parigi dove, ottenuta la nazionalità francese, si trova a dover regolarizzare ancora una volta il suo diploma. Durante il periodo di tirocinio e studio fonda, insieme a qualche collega, “L’Évolution Psychiatrique”, “la più prestigiosa rivista psichiatrica in lingua francese”[3] e nel 1926 consegue il dottorato presso la Facoltà di Medicina a Parigi con una tesi dal titolo: La notion de perte de contact vital avec la realité et ses applications en psychopathologie.[4] Tale tesi rappresenta il nucleo centrale di quella che sarà la sua prima opera dal titolo La schizophrénie. Psychopathologie des schizoïdes et des schizophrènes[5] pubblicata nel 1927. Quest’ultima, insieme all’opera Le temps vécu[6] e Vers une cosmologie[7] forma una trilogia su cui, come egli stesso sostiene, poggiano i suoi successivi lavori. In seguito, negli anni dell’occupazione nazista, decide comunque di rimanere a Parigi con la sua famiglia. Questa decisione è legata a motivazioni di tipo etico che lo portano a compiere scelte all’insegna della solidarietà umana, della massima responsabilità e del massimo impegno.

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale Minkowski, sempre a Parigi, si dedica a prestare opera come medico volontario per essere vicino alle vittime della guerra e diventa presidente dell’Ose, la Società per la protezione della popolazione ebraica. Grazie a questo organismo e con l’aiuto di altri assistenti sociali, riesce a mettere in salvo circa ottocento bambini ebrei. Le sue scelte che si ispirano al valore della responsabilità umana e il suo agire in guerra esprimono, nei fatti, quelle che erano le sue convinzioni in merito ai valori fondanti dell’essere umano, vale a dire la libertà e la responsabilità che, secondo lo psichiatra francese, sono strettamente collegati tra loro. Per l’autore “l’essere umano è fatto per assumere delle responsabilità”[8] di fronte a se stesso: non siamo responsabili perché liberi, ma siamo liberi perché responsabili ed è dunque “la responsabilità, che è un concetto primario, a postulare la libertà.”[9] 

Dopo la seconda guerra mondiale, Minkowski continua la sua attività di medico psichiatra nell’ambulatorio di un ospedale parigino, seguendo anche dei clienti privati. Nello stesso periodo si impegna a pubblicare nel 1966 un ampio trattato, intitolato Traité de psychopathologie.[10] Nella sua produzione di scritti si annoverano anche numerosissimi articoli (oltre duecentocinquanta) su riviste psichiatriche e filosofiche francesi e straniere. La sua fama di psichiatra fenomenologo si diffonde a livello mondiale, ma il suo pensiero non ha proseliti.[11] Muore a Parigi il 17 novembre 1972, all’età di ottantasette anni, dopo un breve periodo di isolamento, confortato dalla figlia e da qualche amico, ai quali raccomanda “di non lasciare dimenticato il suo lavoro per la psicopatologia.”[12]

Come già s è detto i filosofi a cui maggiormente si è ispirato sono stati principalmente Bergson e anche Husserl, che è stato punto di riferimento nell’applicazione del metodo fenomenologico, senza tuttavia dimostrare la stessa rigorosità di metodo che ritroviamo in Husserl. Scarse sono infatti le argomentazione tese a giustificare le sue affermazioni. Per questo possiamo dire che le sue riflessioni si pongono più su un piano antropologico che non su quello epistemologico.

 

 

 

 

 

La psicopatologia fenomenologica

La filosofia e la psicopatologia hanno rappresentato per l’autore, nella sua attività di medico psichiatra, due binari inscindibili lungo i quali si è sviluppato tutto il suo lavoro. Egli scrive nell’opera “Il tempo vissuto”:I dati fenomenologici e i dati psicopatologici si sono trovati nel corso degli anni così intimamente mescolati gli uni agli altri che non ho avuto il coraggio di separarli.”Partito dai dati fenomenologici, una volta divenuto psichiatra ho cercato di applicare quei dati ai fatti psicopatologici.” Questa applicazione non solo è stata possibile, ma poteva anche costituire un metodo particolare capace di ampliare le nostre conoscenze psichiatriche. “Da una parte le considerazioni fenomenologiche, talvolta troppo astratte di per sé stesse, diventavano più <<tangibili>> proprio per la loro applicazione alla psicopatologia. D’altra parte le ricerche psicopatologiche intraprese in questo senso hanno permesso spesso di rivedere i dati fenomenologici, di completarli richiamando l’attenzione su punti che fino a quel momento erano stati lasciati nell’ombra.”

Minkowski viene considerato tra i principali fondatori dell’attuale psicopatologia fenomenologica -per aver applicato il metodo fenomenologico in psicopatologia- e tra coloro i quali hanno messo in pratica i metodi della “Daseinsanalyse”.[13] La Daseinsnalyse studia tutte le modalità con le quali si manifesta nel mondo l'essere umano, sia esso sano o malato. Superando la visione dualistica soggetto/oggetto, la Daseinsanalyse permette di sciogliere l'incomprensibilità della malattia mentale, mettendo sullo stesso piano di possibilità tutte le modalità esistenziali, abolendo la distinzione sano/malato di matrice positivista. Si sposta l'attenzione ormai in maniera definitiva dall'osservazione e catalogazione delle manifestazioni sintomatologiche del malato, all'indagine dei modi con i quali la persona sofferente esprime se stessa nel mondo. Non ci si limita più quindi a osservare il malato mentale e alla catalogazione delle malattie in base alle manifestazione sintomatologiche; si analizza il vissuto del malato nella sua totalità, si cerca di studiare il suo essere-nel-mondo.

 

Le due facce del tempo

Mikowski sottolinea come il tempo abbia due volti: uno razionale e uno irrazionale. Il tempo razionale può essere spazializzato, oggettivato, misurato, calcolato e condiviso da tutti, è il tempo dell’orologio, del calendario. Il tempo irrazionale, al contrario del tempo razionale, non può essere colto dal pensiero discorsivo e logico che si dimostra quindi essere una via inadeguata per conoscere i caratteri essenziali del tempo irrazionale, che potremmo anche chiamare tempo vissuto (ma sarebbe meglio dire tempo vivente). Per indagare il tempo che costituisce la trama della nostra stessa vita, occorre quindi un metodo di indagine adeguato e questo è il metodo della fenomenologia di Husserl che analizza come il tempo sia vissuto interiormente dall’essere umano, come esso si dia alla coscienza in maniera primitiva, senza mediazioni.

L’autore esamina dunque la vita alla stregua di un flusso e polemizza con la considerazione che vuole accostare il tempo ad una visione lineare attraverso una sua spazializzazione.

 

 

 

 

 

 

 

Il divenire

Il tempo è, in maniera primitiva, divenire. Il fenomeno del divenire è l’essenza, la realtà fondamentale del tempo. Minkowski, affermando che il tempo è divenire, mostra di condividere il pensiero di Bergson. Il divenire è alla base del tempo vissuto. Senza il divenire non esisterebbe il tempo così come esso viene intuito dalla coscienza nei fenomeni vitali. Le radici del tempo affondano nel divenire che è caotico e sommerge “con i suoi flutti”[14] ogni cosa. Esso per sua natura non ammette definizioni, per questo possiamo darne soltanto una definizione approssimativa, imprecisa. Scrive lo psichiatra francese: il divenire è ciò che “non conosce né soggetti né oggetti, non ha parti distinte, né direzione, né inizio, né fine. Non è reversibile né irreversibile. È universale e impersonale. Risulta caotico. E purtuttavia è vicinissimo a noi, così vicino che costituisce la base stessa della nostra vita.”[15] Dunque è alla base stessa della nostra esistenza, non solo lo ritroviamo in ciò che ci circonda ed è esteriore a noi, ma anche in profondità nel nostro essere.

Esso è il nucleo della più celebre dottrina filosofica di Eraclito,[16] che si sintetizza nella celebre frase πάντα ρ́ει (tutto scorre). Tuttavia Minkowski si allontana da Eraclito nel definire il divenire: esso non ha parti, non ammette soggetti, né ha bisogno di un “substrato preciso”[17] per esistere (nel caso della formula “panta rei” non necessita del substrato “tutto” di “tutto scorre”),  ma “tutto in esso si confonde”.[18] Il divenire è per sua natura irrazionale, si sottrae al pensiero discorsivo e non può essere conosciuto, possiamo soltanto viverlo.

I processi del pensiero discorsivo sono inadatti a conoscerlo e, di conseguenza, a conoscere il tempo nei suoi aspetti più vitali. Lo dimostrano gli stessi principi della logica che, applicati al tempo, creano un paralogismo,[19] un ragionamento falso: il tempo, oggetto del pensiero discorsivo, si dimostra contraddittorio in se stesso e viene ridotto ad un nulla.[20] Questa contraddittorietà in cui cade il tempo quando esso viene astratto dalla realtà e analizzato dal punto di vista logico, è prova del suo essere irrazionale e del fatto che il tempo vissuto, per sua stessa natura, si sottrae al pensiero che vuole conoscerlo.

Occorre pertanto un metodo di analisi adeguato al carattere irrazionale del tempo, capace di cogliere la sua dimensione vitale e di farne emergere la sua ricchezza. Tale metodo di cui si avvale lo psichiatra francese, come abbiamo già detto, è la fenomenologia di matrice husserliana. Egli dunque non esegue un’analisi razionale del tempo ma descrive come esso si dà a noi, in maniera immediata, nella coscienza.

 

Lo slancio vitale

Il fenomeno centrale nell’analisi del tempo interiore è lo slancio vitale, un concetto ripreso da Bergson. Tuttavia mentre in Bergson lo slancio vitale è principalmente un principio vitale e biologico, in Minkowski esso è anche un fenomeno temporale che descrive il nostro modo di vivere il tempo e di rapportarci al divenire ambiente o in altre parole, di avere un contatto vitale con la realtà. Lo slancio vitale conferisce la direzione al tempo; esso è un fenomeno generale, indiviso e infinito.

Lo slancio vitale riferito all’individuo viene chiamato slancio personale. Esso pone l’essere umano nei confronti della sua durata con lo sguardo rivolto verso l’avvenire (provenendo dal passato), fa sì che si possa sviluppare autenticamente quello che lui chiama contatto vitale con la realtà. Egli scrive:

 

<< Il contatto vitale con la realtà sembra rapportarsi ai fattori irrazionali della vita. I concetti ordinari, elaborati dalla fisiologia e dalla psicologia, quali stimolo, sensazione, riflesso, atto motorio ecc., le passano accanto senza raggiungerla, senza nemmeno sfiorarla. […] Il contatto vitale con la realtà riguarda molto di più il fondo stesso, l’essenza della personalità vivente nei suoi rapporti con l’ambiente. E questo ambiente, ancora una volta, non è né un insieme di stimoli esterni, né di atomi, né di forze o energie; è un’onda mobile che ci avvolge da ogni parte e che costituisce il mezzo senza il quale non potremmo vivere.>>

Per Minkowski la caratteristica principale dello schizofrenico è proprio «la mancanza di contatto vitale con la realtà». Il contatto vitale con la realtà si configura dunque come un flusso. Come per Binswanger, secondo Minkowski chi soffre di disturbi mentali subisce la fossilizzazione del proprio flusso temporale che si riduce ad essere una sosta continua in un presente costante e sempre attuale. Lo slancio personale è ciò che ci apre l’orizzonte del futuro davanti a noi, un orizzonte costantemente presente e mutevole. Scrive l’autore:

“lo slancio vitale e soltanto lo slancio vitale crea l’avvenire davanti a noi. Nella vita, tutto ciò che ha una direzione nel tempo, ha slancio, avanza, progredisce verso l’avvenire. Così pure, quando penso ad un orientamento nel tempo, mi sento irresistibilmente spinto in avanti e vedo l’avvenire aprirsi davanti a me.”[21]

 

Lo psicopatologo francese inoltre ha individuato e descritto alcuni elementi che compongono lo slancio vitale.

Ad esempio parte integrante dello slancio vitale è il fattore superindividuale o super-io. L’individuo sente di avere un ruolo per il semplice fatto di partecipare alla vita. Minkowski parla di super-io senza però far riferimento al significato che aveva in Freud ma volendo intendere ciò che supera l’io; esso è parte integrante dello slancio ed è ciò che c’è di più nostro in noi ma al tempo stesso ci trascende. Nel realizzare un’opera giungiamo ad avere un posto nel divenire, non nel senso spaziale, ma nel senso che siamo espressione di qualche cosa che ci supera, sentiamo che le forze che ci ispirano nel compiere un’opera provengono da fuori da noi e ci trascendono.

Altro fattore dello slancio è la dimensione in profondità dell’io o inconscio. Tale dimensione in profondità dell’io è la parte ignota di noi stessi, è lo sfondo sconosciuto nell’essere umano indispensabile alla vita. Esso fa degli altri i miei simili poiché è la base comune a tutti gli esseri umani. Le nostre conoscenze, per quanto estese, non pervengono mai a questa base, lasciano intatto questo fondo che ritroviamo in noi stessi. Scrive M. a proposito dell’inconscio:

 

“Grande è il nostro slancio che, cercando di superare continuamente se stesso, non si rivela a noi che nel suo cammino incessante in avanti, grande è il sentimento di essere portato come da un destino che, mille volte più potente di noi, non fa che esprimersi in noi; profondo, potente e misterioso è il fondo dal quale scaturisce la nostra vita, dal quale scaturiscono le nostre idee, i nostri sentimenti, le nostre tendenze. È questa la nostra grandezza vissuta e solo questa.”.”

 

Il nostro slancio dunque scaturisce da questa sorgente sconosciuta, intima e potente. Tale fondo è il movente inconscio che unisce tutti i singoli moventi consci dei nostri atti. Super-io e inconscio sono due espressioni dello stesso divenire.

Lo slancio che scaturisce dalla nostra sorgente interiore si manifesta nell’opera realizzata. L’opera, una volta portata a termine, diventa autonoma dall’io, se ne distacca e inizia a far parte del divenire ambiente. Questo fenomeno avviene in modo naturale e lo psicopatologo lo definisce fattore di integrazione dell’opera.

Nello slancio personale esiste tuttavia anche un fattore di limitazione o di perdita poiché esso restringe il nostro orizzonte. Nel dedicarmi ad un’attività rinuncio ad avvenimenti che accadono fuori di me e dentro di me, avverto di rinunciare a ciò che di ricco c’è nel divenire ambiente.

 

Il presente

M. mette a confronto il fenomeno dell’adesso con il fenomeno del presente. L’adesso sul piano logico riduce al nulla tutto ciò che non è lui stesso. L’adesso è sfuggente, non si lascia fissare e lascia sussistere al suo posto il fenomeno del presente. Il presente ha estensione e ha dei confini più o meno estesi; è un adesso dispiegato. È più calmo e rasserenante dell’adesso e, per il principio di omogeneizzazione, esso include in sé una parte del passato e del futuro. Inoltre è il presente che unisce in un tutto passato, presente e futuro.

 

Il passato

Uno dei fenomeni più importanti del passato è l’oblio: la grande regola del passato che la retrospezione rivela è innanzitutto la regola dell’oblio. Tutto nel passato subisce l’usura del tempo, tutto vi è fatalmente votato all’oblio. Il passato non è statico, “c’è in esso movimento, dinamismo, tempo, ce n’è proprio nella misura in cui ogni cosa è in esso votata all’oblio.” Scrive M.: “quando guardiamo all’indietro, vediamo le cose, indipendentemente dalla loro importanza, incamminarsi lentamente verso il silenzio eterno dell’oblio.”[22] Nel passato ritroviamo la stessa marcia del tempo che, come dicevamo, tenta di riprendere quello che ha dato, tenta di ridurvi tutto progressivamente al silenzio. Una marcia al rallentatore che non ha più in sé niente di terrifico, di drammatico ma sprigiona un senso di acquietamento.

“In tal modo il tempo in esso salvaguarda la propria natura; finisce col riprendere ciò che ha dato, sommerge fatalmente quello che per un istante - e questo istante può durare secoli - ha potuto galleggiare alla sua superficie.”[23] La retrospezione, cioè la capacità di rivolgere lo sguardo al nostro passato, ci rivela dunque una grande regola del passato: la regola dell’oblio. In questa prospettiva l’oblio non è un difetto della nostra memoria; esso ha un senso positivo; “troviamo nella regola dell’oblio universale un profondo acquietamento.”[24]

Pur essendoci del passato anche nel presente, il passato e il presente tuttavia risultano incommensurabili, nel presente c’è una dimensione in più. Il passaggio dal passato al presente non ha un carattere lineare. C’è sempre qualcosa nel presente che, pur senza essere dimenticato, non si iscrive per nulla nel passato. Il presente: “non stacca né isola, ma integra, si dispiega e irraggia, aprendo l’orizzonte dell’avvenire davanti a noi.” E queste sono prospettive che il passato non conosce. Il passato ci sembra sempre, proprio per i tagli e lo spezzettamento che lo caratterizzano, come diminuito, amputato di qualcosa rispetto al presente vissuto. Non si potrà mai far vivere di nuovo il passato. Anche nell’avvenire c’è del passato: quando prevedo quello che farò domani, in fondo in questa previsione non c’è più avvenire vissuto, ma c’è passato, l’avvenire vissuto comincia solo più lontano. Lo stesso quando vediamo il presente scomporsi in <<fatti diversi>> qualunque sia la loro importanza, questi fatti sono propri del passato e non del presente.

Altro elemento indagato dallo psicopatologo francese è il ricordo che ci mette, in modo del tutto indiretto, in relazione con un passato mediato. Il rimorso è il ricordo per eccellenza, c’è poi anche il rimpianto e il ricordo semplice. Il rimorso è il ricordo del male che si iscrive nella memoria. Il ricordo riguarda sempre un avvenimento che è passato <<qualche tempo fa>> e, per quanto sia breve questo <<qualche tempo fa>>, nondimeno costituisce dal punto di vista qualitativo, un lasso di tempo, un intervallo vuoto durante il quale l’avvenimento passato non è stato in alcun modo presente alla coscienza.

 

Il futuro

Il futuro è descritto con l’immagine dell’orizzonte che si presenta costantemente davanti a noi.

Vengono analizzati dall’autore alcuni fenomeni che hanno l’avvenire in sé e descrivono vari modi in cui viviamo il futuro vissuto. Tali fenomeni sono: l’attività e l’attesa, il desiderio e la speranza, la preghiera e l’atto etico.

 

L’attività e l’attesa

L’attività è una manifestazione globale dell’essere vivente: chi è vivo è anche attivo. L’attività è intrinseca alla vita stessa, è un fenomeno essenziale e primitivo. Essa è indispensabile per poter creare qualcosa, permette che il nostro slancio si concretizzi. Tuttavia va sottolineato che la nostra creatività non trova ispirazione dall’attività ma dalla dimensione in profondità dell’io. L’attività così intesa è il fondo comune che ricollega tra loro le singole attività. Essa ha durata e mi mette in contatto con l’avvenire immediato, più prossimo.

L’attesa è un fenomeno vitale e primitivo, opposto all’attività ma al tempo stesso unito all’attività in quanto i due fenomeni descrivono l’atteggiamento generale dell’individuo nel mondo. L’attesa è sospensione dell’attività, in essa non c’è durata, è istantanea e in essa viviamo il tempo in direzione inversa: è l’avvenire questa volta a venire verso di me. L’attesa è sempre accompagnata da una sensazione dolorosa, è un fenomeno che ci fa provare ansia, terrore, angoscia.

 

 

 

 

Il desiderio e la speranza

Il desiderio e la speranza si trovano ad un livello superiore rispetto ai fenomeni dell’attività e dell’attesa. Con il desiderio entro in contatto con un futuro più distante, non più immediato ma mediato. Inoltre nel desiderio vado più lontano anche nel mio io intimo, il desiderio è più vicino a me dell’attività.

Nella speranza -al contrario del desiderio e come nell’attesa- viviamo il tempo in direzione inversa. Tuttavia la speranza non suscita l’ansia dell’attesa (anche se non la elimina del tutto) poiché in essa entro in rapporto con un divenire distante da me, con un futuro mediato. Essa ci conduce più lontano anche dentro di noi.

 

La preghiera

“La preghiera ha un valore enorme, così grande che nulla di più grande è immaginabile”. Essa è un fenomeno umano universale che va al di là della distinzione tra credenti o non credenti. La preghiera mi conduce lontano nel futuro, in un luogo al di fuori dello spazio e del tempo. Con essa raggiungo l’assoluto, mi trovo in un “luogo” oltre il quale non si può andare. Sperimento un’ “estrospezione vissuta totale” ma anche un’ “interiorizzazione vissuta totale” in quanto, quando prego, vado fino in fondo fuori di me e dentro di me. Con la preghiera sperimento l’eterno inteso come l’unica dimensione temporale in cui supero il divenire.

 

L’atto etico

A conclusione delle riflessioni sul futuro vissuto, come a voler seguire un ordine gerarchico, M. parla dell’atto etico che è il fenomeno fondante della vita e della temporalità. Al tempo stesso l’azione etica è coronamento della vita, essa è realizzazione di ciò che c’è di più elevato in noi.

Quando realizzo un’azione etica sperimento un senso di libertà :“È come un volo possente verso l'infinito. Comunichiamo con l'universo infinito, non abbiamo niente più in noi che ce ne divida, ci sentiamo liberi. Come è lontana questa libertà da qualsiasi idea di determinismo, sia affermato come tale, sia negato sotto forma del libero arbitrio. Essa (la libertà) si avvicina molto di più ad un sentimento di liberazione da tutto ciò che è terra terra nella nostra vita, che al concetto di causalità.” In altre parole l’azione etica è un atto essenzialmente libero e cosciente che ci restituisce la vera dimensione dell’essere liberi.

Nell’atto etico giungiamo a comprendere il senso dell’universo, scrive l’autore: “Solo lo slancio etico ci permette di prendere interamente, al più alto grado, coscienza di noi stessi […] esso apre largamente, in maniera assoluta, <<fino in fondo>> l'avvenire davanti a noi, che ci fa abbracciare, in un volo senza uguali, in un sol colpo d'occhio, il senso dell'universo tutto intero, nel suo cammino in avanti.”

L’atto etico è un atto creativo ed è la sola azione che resiste al divenire. Tale fenomeno temporale apre il nostro avvenire al massimo grado: il futuro stesso arriva a coincidere con l’ideale.

 

La morte

La morte viene a troncare una vita e, ponendo fine ad essa, la inquadra tutta intera, in tutto il suo percorso: essa trasforma la trama degli avvenimenti in una vita, riunisce in una sola unità sintetica tutto ciò che ha preceduto questa morte. La morte ci dà in maniera primitiva “la nozione di una vita”, non della vita, ma di una vita. Con la morte una vita si è compiuta: una vita si compie così non per le sue opere, con le quali non si è mai finito, ma per la morte.

La morte, in quanto distruzione, genera un divenire e non un essere inoltre ha in sé qualcosa di irreparabile perché pone fine ad una vita che non si può sostituire, ogni vita infatti è unica nel suo genere pur non essendo indispensabile. La morte invece si ripete identica a se se stessa, mette fine a delle vite ma non alla vita; per questo diciamo che essa ci dà non solo la nozione di una vita ma “la nozione di una vita nella vita”.

Una vita comincia nella misura in cui un giorno è chiamata a compiersi: secondo l’autore dunque è la morte ad essere un fenomeno vitale e non la nascita che è solo un fatto biologico. Per essere un essere vivente, con una vita dietro a sé, bisogna essere mortali.

Ogni morte è un memento mori per i sopravissuti , perché ci tocca direttamente, penetra fino in fondo al nostro essere e ci mette di fronte sia alla nostra propria vita sia alla nostra propria mortalità. Secondo lo psichiatra francese comprendiamo la nostra mortalità poiché esiste una mortalità universale che è un fenomeno più primitivo rispetto alle morti isolate.

La morte è un fenomeno essenzialmente individuale ma nello stesso tempo il fenomeno più generale, il più plurale che conosciamo, uguale per tutti, senza eccezione. Insieme al fenomeno della simpatia, essa stabilisce l’identità tra gli uomini. È una certezza assoluta e non solo ci dà la nozione della nostra mortalità ma ci fornisce anche la nozione della mortalità di tutte le vite. C'è un esito solo alla vita, è la morte, e questo esito ci è indispensabile per vivere.

Essa è la mia prima conoscenza a proposito dell'avvenire. Inoltre è essenzialmente mistero, è un fenomeno misterioso e problematico.

Nella morte tuttavia c'è sempre un dopo: in essa c'è della sopravvivenza; in essa vedo un limite e vedo un dopo. Tale elemento di sopravvivenza non viene dal di fuori: la morte non esiste per me che perché in me c'è un <<dopo di essa>> che mi è dato molto più primitivamente della morte stessa.

La morte inoltre mette in luce un altro aspetto del nostro avanzare verso l’avvenire: nel cammino della vita io avanzo verso un orizzonte senza limiti e al tempo stesso avanzo verso la fine. Sono due cammini che si trovano su due differenti livelli ma che costituiscono una dualità indivisa. Ad essi corrispondono due diversi atteggiamenti e il sentimento di sentirsi giovane o vecchio. Il mio slancio vitale va oltre la morte, verso l’avvenire infinito, tuttavia, al tempo stesso, in alcuni momenti, io sento di avanzare verso la morte, o forse sarebbe più corretto dire che vedo la morte venirmi incontro mentre io sono fermo.

Gli anni si accumulano come un peso sotto il quale mi sento piegare, come se una forza invisibile mi attirasse verso il basso e verso la terra, l’autore sottolinea che questo chinarsi verso il basso descrive il fenomeno dell’invecchiamento interiore. Se una parte di noi si china sempre di più verso il basso tuttavia un’altra parte cerca sempre di elevarsi, per via dello slancio, verso l’alto. Esiste dunque nell’esistenza dell’uomo un dualismo vissuto, che entra a far parte della vita a causa della morte.

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[1] Eugen Bleuler nacque a Zurigo nel 1857 e morì nel 1939. Studiò medicina a Zurigo e, nella stessa città, insegnò psichiatria e diresse l’ospedale psichiatrico in cui lavorò per un certo periodo anche E. Minkowski. Diede importanti contributi allo studio delle psicosi e in particolare della schizofrenia, termine che lui stesso introdusse al posto di “dementia praecox”. Individuò inoltre nell’autismo l’elemento fondamentale della stessa schizofrenia. La sua opera principale risale al 1916 intitolata Trattato di psichiatria.

[2] T. v., p. 8.

[3] Schiz., p. XI.

[4] E. MINKOWSKI, La notion de perte de contact vital avec la réalité et ses applications en psychopathologie, tesi di dottorato, Jouve et Cie, Paris, 1926; ora in Au-delà du rationalisme morbide, L’Harmattan, Paris, 1997.

[5] E. MINKOWSKI, La schizophrénie.  Psychopathologie des schizoïdes et des schizophrènes, 1° ed., Payot, Paris, 1927 (in italiano vedi E. MINKOWSKI, La schizofrenia. Psicopatologia degli schizoidi e degli schizofrenici, introduzione di Stefano Mistura, Torino: Einaudi, 1998, 224 pp.).

[6] E. MINKOWSKI, Le temps vécu. Études phénoménologiques et psychopathologiques, d’Artrey, Paris, 1933, pp.401 (in italiano vedi E. MINKOWSKI, Il tempo vissuto: Fenomenologia e psicopatologia, prefazione di Enzo Paci, tr. it. di Giuliana Terzian, Torino: Einaudi, 1971, 441 pp.).

[7] E. MINKOWSKI, Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Aubier, collez. “Philosophie de l’Esprit,” Paris, 1936, 264 pp. (in italiano vedi E. MINKOWSKI, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, tr. it. Davide Tarizzo, Torino: Einaudi, 2005, 241 pp.).

[8] Schiz., p. XIII.

[9] Ibid.

[10] E. MINKOWSKI, Traité de psychopathologie, P.U.F. (Collez. “Logos”), Paris, 1966, 755 pp. (in italiano vedi E. MINKOWSKI, Trattato di psicopatologia, Milano: Feltrinelli, 1973, 561 pp.).

[11] Vedi Schiz., p. XVI.

[12] Ibid.

[13] Per approfondimenti vedi F. S. P., p. 21.

[14] T. v., p. 19.

[15] Ibid.                                                                                                                                                                                                   

[16] Eraclito fu un filosofo dell’antica Grecia, di famiglia aristocratica, che visse ad Efeso, colonia ateniese sulle coste della penisola anatolica. Nasce nel 540 circa a.C. e muore nel 480 a.C. . La sua dottrina più nota può essere sintetizzata nella formula pànta rheî, “tutto scorre” che gli valse la fama di filosofo del divenire. Uno dei suoi aforismi recita: “Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume”. Con questa espressione Eraclito voleva affermare il divenire universale. La sua teoria sul divenire rimane una delle più conosciute e importanti dell’intera storia del pensiero occidentale. Eraclito individua il principio primordiale, l’archetipo, nel mutamento della materia. Tutto viene e tutto va, incessantemente e in questo movimento consiste la natura delle cose.

[17] Ibid.

[18] Ibid.

[19] Il paralogismo, dal tardo latino paralogismus, è un ragionamento fallace, cioè falso, che ha apparenza di vero, strutturato sulla forma di un sillogismo. I logici contemporanei lo differenziano dal sofisma, in cui l’intento è volutamente ambiguo e ingannevole, poiché il paralogismo è spesso dovuto ad un errore logico inconsapevole, è involontario.

[20] “Il passato è passato, dunque non c’è più; l’avvenire non c’è ancora; il presente si trova così tra due nulla; ma il presente, l’adesso, è un punto senza estensione; dal momento che il presente è qui, già non c’è più; l’adesso è dunque contraddittorio e pertanto esso pure è un nulla”. Per approfondimenti cfr. T. v., p. 21.

[21] E. MINKOWSKI,  Il tempo vissuto, p. 38.

[22] E. MINKOWSKI, Il tempo vissuto, pp. 168-169.

[23] Ibid., p. 169.

[24] Ibid.